martedì 21 luglio 2015

Io, forse

Sto pensando di chiudere questo blog.
Di non scriverci più. Mi è sempre piaciuto scrivere qui. Si fanno le cose con più cura quando sai che qualcun altro le leggerà. Ma non scrivere più qui non significa non scrivere più.
Finché sarò migliore qui, tra le righe di questi post, non potrò esserlo nella realtà. Finché saranno quattro parole messe abbastanza bene una dopo l'altra a parlare al mio posto, non mi servirà poi a tanto avere due pliche vocali perfettamente funzionanti. Non sono brava a parlare. E di questo ne ho già abbondantemente parlato. Scusate il gioco di parole. Meglio dire che ne ho già abbondantemente scritto, che è effettivamente più corretto. 
Mi sto rendendo conto che non solo non sono capace a spiegarmi, a raccontare, a rispondere alle domande e a parlare di me, ma non sono nemmeno brava a capire che i miei comportamenti a volte tradiscono il mio pensiero. Per trentanni sono stata educata e mi sono autoeducata alla paura e all'insicurezza. Ora credo di essermene liberata e sono convinta che le mie domande siano solo semplici innocue domande ma poi vengono percepite in un'altra maniera. Io non voglio essere irrispettosa, non voglio controllare nessuno e mi fido! Però il sentimento che arriva all'altra parte è opposto. E questa è un'immensa frustrazione.  

C'è stato un periodo in cui non ho parlato. Una sorta di sciopero della fonazione. Non volevo dire niente ed è stato un bel periodo perché i dialoghi me li immaginavo. Lo sciopero della fonazione è durato poco. Ma è da lì che ho iniziato ad avere una grande fantasia. Tutti i bambini hanno un'enorme fantasia. Credo sia necessaria. Poi se ne va. Se ne va del tutto di solito, ma se ti serve allora rimane. E un po' così è stato. E' rimasta, per esserci quando serviva. Ho continuato ad immaginare i dialoghi per molti anni. Il più delle volte erano dialoghi molto belli e rassicuranti. Erano dialoghi e sogni e speranze. Mi immaginavo come sarebbero andate cose che poi non sarebbero mai effettivamente accadute. Una perdita di tempo, insomma, ma che mi faceva stare bene. Col tempo però è diventata deleteria. Mi immaginavo dialoghi che poi non facevo. Per esempio, immaginavo di spiegare una cosa e nella mia mente vedevo i gesti che avrei usato e cosa avrei detto e in che modo. E allo stesso modo immaginavo le risposte del mio interlocutore, cosa avrebbe controbbattuto e le sue eventuali domande. Quel dialogo si svolgeva veramente ed interamente nella mia mente. Il problema è che alla fine ero talmente stanca di tutto quel parlare che finivo per non comunicare assolutamente nulla. Nella mia mente l'episodio era ricco di particolari, di frasi e di cose dette ed io ero così naturale e spontanea e a mio agio.. ma quando poi c'era davvero la possibilità di realizzare quel dialogo, la comunicazione era striminzita, arida, priva di emotività. Un akarpos logos a tutti gli effetti. A volte, invece, i miei accadimenti onirici erano catastrofici. Così oltre a farmi stancare e farmi perdere la voglia di parlare sul serio, finivano per rendermi ancora più spaventata. 
Per un po' ho creduto che fossero utili per allenarmi a parlare con gli altri. Era come se facessi delle prove di dialogo. Sbagliavo anche in quel caso. Erano solo deleteri. Quando ho iniziato ad improvvisare ho trovato un altro modo per incanalare tutta quella fantasia. Finalmente la fantasia aveva trovato un modo per uscire allo scoperto. Non sono mai stata spaventata sul palco. Nemmeno al primo saggio: ero euforica, non vedevo l'ora e se c'era un po' di strizza era quella strizza buona che ti dà il coraggio di osare.
Mi sento libera, sul palco. Spontanea. Sicura di me. Non ho nessuna paura. Anche mentre improvviso sono migliore di come sono nella realtà. Forse dovrei smettere anche con l'improvvisazione.
Non so se c'è un motivo logico che possa spiegare tutto questo. Se ci penso, banalmente mi viene da dire che sul palco e quando scrivo, mi sento libera di essere ciò che realmente sono perché nessuno può sapere quanta realtà c'è e quanta fantasia. Perfino il titolo del blog lascia dei dubbi sulla veridicità di tutto ciò che qui è scritto. E' come se il giudizio altrui fosse troppo opprimente. Così penso di non essere abbastanza interessante o divertente o brava. Ma sul palco me ne frego e anche qui. Perché sul palco sono solo un personaggio creato sul momento e qui potrei essere chiunque e voi non mi state guardando negli occhi dando l'impressione, al mio cervello bacato, che vi aspettiate qualcosa da me.

Il prossimo libro che comprerò è un romanzo russo in cui un uomo scrive lettere non d'amore per la sua amata. Una di queste lettere fa così: "Mi hai assegnato due compiti. 1) non telefonarti 2) non vederti. Adesso sono un uomo impegnato". 
I compiti che io assegno a me stessa, che stanno anche bene in vista delle vacanze estive, sono: 1) non scrivere su questo blog 2) non improvvisare. 
Adesso sono una donna impegnata. Ad avere a che fare con la realtà.

domenica 12 luglio 2015

Lo zen e l'arte dell'intrepidezza

Ci sono cose che capitano nel momento esatto in cui ne hai bisogno. 
Come incontrare lo zen e in un weekend sentire che tanti sassi in cui sei inciampata si possono unire a costruire una strada.
Fare una strada è abbastanza semplice, quando capisci come sistemare i ciottoli. Percorrerla già è più difficile. Ma è solo questione di non avere paura.
Se un samurai ha paura della morte è morto! Non avere paura è indispensabile per riuscire a bloccare al volo la lama di una katana tra due palmi. Ma pur non essendo un samurai inizio a capire quanto l'assenza della paura sia necessaria per stare bene. La paura è solo nella mia mente. Mi blocca e mi impedisce di vivere qui ed ora. Stare nel momento: lo puoi fare solo se non hai paura e se non sei chiuso nella tua mente. Piccola mente limitata e limitante. Io sono molto di più della mia mente! Pensare al passato e al futuro è fantasy. Non serve a niente. Il rimpianto di quel viaggio a Tokyo tanto desiderato e la tristezza di un futuro prossimo in cui qualcuno lo farà senza di me non fa bene. Non mi fa vivere nel presente e mi fa perdere momenti preziosi. Quindi basta. Voglio solo essere qui, ora. Farmi una doccia senza pensare a nient'altro, solo a prendermi cura del mio corpo, a restare connessa a me stessa. Insaponarmi un braccio e sentire con i polpastrelli la mia pelle. Concentrarmi su quello che sto facendo, sull'acqua che mi bagna i capelli e corre lungo la schiena. Io sono questa. Sono più di ciò che penso. E non devo avere paura di niente. Che sia paura di un insetto, del vuoto, di essere traditi o del fallimento, sempre della stessa paura si tratta. E' superandola che puoi seguire il flusso e permettere che le cose accadano. 

Tempo fa, su una di quelle riviste che solitamente si leggono dal parrucchiere in attesa che la tinta faccia presa, lessi la risposta di un presunto esperto in relazioni amorose alla richiesta di consigli da parte di una fedele lettrice. Il tizio in questione diceva di avere una coppia di amici sposati e molto innamorati. Lei era terrorizzata dai clown e lui, per amor suo, faceva di tutto per farle evitare qualsiasi spiacevole incontro con la suddetta categoria di uomini con naso rosso e scarpe fuori misura. Questo per lui era l'amore. L'impegno di un devoto marito nell'evitare ogni possibile occasione di trauma per la moglie. La conclusione era che se un uomo non fa questo per te, allora non gli piaci abbastanza. Quindi, alla cara lettrice, veniva caldamente consigliato di lasciar perdere al più presto il suo non marito niente affatto premuroso.
Lo stesso Freud mi disse che a volte avere paura è un bene perché fa evitare sbagli o situazioni di pericolo. 
Oggi, grazie allo zen e ad un giapponese altro un metro e sessanta, fidanzato da vent'anni con un americano spiccicato al marito di Samantha in Vita da strega, ho capito quanto tutto ciò sia inveritiero.  La paura non è mai positiva. E ad essere pericoloso non è l'assenza della paura ma considerare amore una forma di dipendenza. Dipendere da qualcuno e farsi bloccare da paure che esistono solo nella propria mente, questo si che è mortale.

venerdì 10 luglio 2015

My fair schatz

Nel giorno in cui è nato Nikola Tesla me ne sto a casa mia nuda sul letto.
Fa caldo e ho passato quattro ore in areoporto in attesa di tornare.
E poi dicono che gli svizzeri sono precisi e puntuali.
Il mio umore era parecchio altalenante. Mi sono sentita felice, triste, disperata, cazzutissima a livelli stratocosmici, scocciata perché ero bloccata lì e determinata. La determinazione non è così usuale per me. Ma negli ultimi giorni ho: fatto nuoto a livello agonistico e corso tre chilometri (io che non faccio mai sport!), il bagno in un fiume portata dalla corrente, afferrato al volo una fastidiosa mosca come avrebbe fatto Obama, preso in mano un insetto nero per portarlo fuori di casa e poi un ragno con le zampe lunghissime che non stava mai fermo, portato uno zaino pesantissimo che mi fa ancora male la schiena, mangiato sushi per la prima volta e scommesso su un andata-ritorno di fine agosto.
Se ho fatto tutto questo in dieci giorni sento di avere buone probabilità. 
Mi immagino come una donna matura e fiera, che mangia composta, senza poggiare i gomiti sul tavolo e soprattutto che non prende quel cavolo di ketchup. 
Insomma, la zotica fioraia di G.B. Shaw finalmente trasformata in una dama di alta classe! Mi piace pensarmi così, come una che sa sempre come comportarsi, sa quello che vuole e che non sfigurerebbe nemmeno ad una cena di gala a casa degli Obama. Non volerebbe una mosca quella sera. 
Io credo di sapermi comportare. L'ho sempre pensato. Sono cresciuta in periferia, tra i cafoni veri. E sono sempre stata diversa da loro. Ho sempre parlato un ottimo italiano e avuto dei modi educati. Ho letto e studiato. Conosco le buone maniere. Per lo meno le conosco rispetto a un uomo che è stato cresciuto nel bosco da un branco di lupi. Ma rispetto ad un esponente della casa reale inglese mi rendo conto di sembrare un animale del bosco cresciuto da un branco di umani. 
Mi sono sempre sentita un po' fuori luogo, non adatta alla periferia ma nemmeno al centro della città. Sarebbe bello se bastassero un paio di biglie in bocca e un libro sulla testa per imparare ad essere una lady!
Il mio cervello è un po' combattuto. Combatte tra la voglia di sfoggiare all'ippodromo favolosi e scomodissimi abiti di ottima fattura e quella di continuare a vendere fiori totalmente sgraziata.
Ma oggi è il giorno in cui è nato Tesla. E lui è proprio l'uomo che avrei sempre voluto conoscere o essere. Uno scienziato e inventore geniale, misterioso, eccentrico, solitario e un tantino folle. Vorrei che fosse ancora vivo e che mi costruisse una bizzarra macchina per trasformare la volontà in concretezza o un raggio che distruggesse ogni sentimento di insicurezza come se fosse fatto di cristalli di neve. Però Tesla è morto da anni, a New York, e il governo americano ancora conserva come top secret alcuni dei suoi brevetti e dei suoi scritti. Io potrei andare a New York, recuperare questo materiale e vedere se Tesla ha effettivamente lasciato qualche indicazione per le invenzioni di cui ho bisogno. Il problema è che ho bisogno di quelle invenzioni per andare a New York a recuperare gli appunti di Tesla. Un bel paradosso. E una fatica inutile. Perché Tesla non ha mai avuto bisogno di invenzioni del genere e comunque io non sono Tesla né tantomeno una fioraria incolta e poco raffinata. Ancora non appartengo alla periferia nè al centro. Sono il desiderio di essere due cose forse inconciliabili. Il desiderio di non snaturarmi diventando ciò a cui anelo. Sono il desiderio che ora me ne vado a dormire perché ho bisogno di riposarmi, altrimento vaneggio. Poi domani mi sveglio, mi estirpo l'inerzia e compro delle biglie. Se me le metto in bocca invece di giocarci sulla sabbia non vi spaventate: diventare adulti significa solo usare il nostro bagaglio di bambini e adolescenti in un modo altro.